Eye on Juliet
Kim Nguyen ha scritto e diretto il film Eye on Juliet presentato alle Giornate degli Autori e che ha vinto il Premio Fedora per il miglior film, assegnato dalla Federazione dei Critici Cinematografici Europei e del Mediterraneo con la seguente motivazione: “Per la maniera ispirata attraverso la quale la tecnologia diventa strumento in grado di avvicinare le persone tra loro attraverso la compassione e la dignità.”
English version here: Intervista Kim Nguyen
La nostra prima domanda è sempre la stessa: potrebbe farci un breve pitch del suo film?
È la storia di un uomo che vive a Detroit e lavora come pilota di droni al controllo di alcune tubature petrolifere. Vorrebbe l’amore e l’occasione di diventare un eroe, ma non fa altro che fissare degli schermi. Finché non scopre una coppia che si incontra clandestinamente proprio lì nel deserto e si mette ad osservarli. Comincia così a farsi domande sulla propria vita che finirà col cambiare proprio in conseguenza di questa scelta .
Il film oscilla molto fra la realtà conservatrice dei paesi di religione araba e il futuristico mondo della tecnologia.
Da dov’è nata l’idea per questo film? Dalla cronaca, o forse proprio da uno spunto tecnologico?
Dal momento che siete una testata dedicata alla sceneggiatura, vi rivelerò che inizialmente ci sono state diverse versioni di questo film. In principio c’erano tre storie parallele, e una era ambientata in India. Si intitolava The origin of the world (L’origine del mondo, ndr) e parlava di una specie di villaggio globale, e di come noi, persone del 21esimo secolo, da una parte ci rapportiamo con la tecnologia e dall’altra desideriamo il contatto umano. E quest’ultimo è sempre più difficile da ottenere, no? Alla fine, però, dopo molte riscritture, abbiamo semplificato la trama, concentrando la storia su una donna dell’Africa orientale e sul suo desiderio di vivere un amore vero, libero, autentico e sul pilota di droni che vive negli Stati Uniti e vuole la stessa cosa. È un uomo romantico, ma nel suo mondo non è più una dote apprezzata. Deve trovare un modo per essere se stesso e finisce per esprimersi attraverso un mezzo meccanico, il drone. Mi sono divertito, come regista, a giocare con la telecamera: come se fossi un musicista intento a scrivere una canzone, ricostruendo le vibrazioni che intercorrono fra due persone che cercano di comunicare, scoprendo infine come possano realizzarsi vicinanza e intimità anche con tutta quella tecnologia in mezzo.
Eye on Juliet tratta molto di tecnologia e vita, anche se lo fa in una maniera inusuale. Qual è il suo rapporto quotidiano con la tecnologia?
Credo si possa essere tutti d’accordo nel dire che gli smartphone stanno diventando un problema; finiscono per compromettere la nostra creatività, mettono a repentaglio la nostra concentrazione, il nostro modo di riflettere, di avere bellissime idee e cose del genere. Ci rendiamo conto di agire più in maniera orizzontale, che verticale: non approfondiamo più, e dunque il nostro diventa un modo del tutto diverso di comprendere il mondo. Più ci penso e più credo che dovremmo auto-disciplinarci proprio nello stesso modo in cui i nostri genitori ci ordinavano di guardare meno tv. Ora, siamo noi genitori i primi a usare continuamente il telefono, tanto quanto i nostri figli, e finiamo per avere meno rapporto con loro. Potremmo, invece, fare molte altre cose e passare più tempo a disegnare o a giocare con loro.
In che modo queste considerazioni, questo suo rapporto con la tecnologia hanno influenzato il film?
È parte stessa del film, in maniera intrinseca e simbolica. Di fatto è un modo diretto per mostrare come stiamo sempre di fronte a degli schermi e quanto desideriamo fuggire da questa situazione. Nel film abbiamo proprio un uomo intrappolato tutti i giorni in una “prigione di schermi”, con il desiderio di andarsene e di trovare quel rapporto fisico di cui ha bisogno.
Direbbe che il suo film parla più di comunicazione o della mancanza di essa?
(sorride) Molto interessante. In un certo senso è lo stesso argomento. Ma, sì… è molto interessante. Per esempio, pensiamo al robot che abbiamo messo in scena. È un robot imperfetto, un po’ come accadeva con i robot di Star Wars; è una tecnologia datata. E quel robot credo esprima i nostri problemi di comunicazione attraverso la tecnologia. Quindi, in un certo senso, direi che il film parla di comunicazione “difettosa”, problematica… e di incomprensioni.
Nel film cita Romeo e Giulietta, rapportando al dramma la storia dei due protagonisti. L’opera di Shakespeare, però, mette in scena un amore impossibile. Il suo diventa possibile. Perché?
(ride) Vedo questo film come una sorta di utopia ironica. Voglio dire… È come in una canzone di Louis Armstrong, o come ne La vie en rose: ironico. So bene che si tratta di qualcosa che non potrebbe mai succedere nella vita reale. È quasi come un sogno. Io lo vedo così. E in questo sogno, ci sono due persone che riescono effettivamente a salvarsi l’un l’altra.
A giudicare dalla sua filmografia, è molto interessato a rappresentare realtà molto distanti dalla sua in Canada. C’è una ragione?
Sono nato in un quartiere piuttosto benestante, in periferia, e non ho mai avuto particolari problemi nella mia vita. Non ho mai corso pericoli. Ci sono molti cineasti che parlano di difficoltà, di rischi e lo fanno spesso raccontando proprio la periferia. Io ho avuto il privilegio e il vantaggio di raccontare altro, da un’altra parte, e di occuparmi di ciò che più mi interessava personalmente.
La nostra ultima domanda riprende il discorso di inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia tenuto dal Direttore Barbera: ha parlato del futuro del cinema e di come i Festival svolgano un ruolo fondamentale nel proporre e nello sviluppare nuove strade per il cinema. Quest’anno, in particolare, Venezia ha aperto un percorso proprio attraverso l’innovazione tecnologica, introducendo in larga scala nel programma la realtà virtuale. Qual è il suo punto di vista in merito?
Beh, in totale onestà… se osservate come le cose si stanno trasformando, ci sono diversi motivi per cui dovremmo cominciare ad andare nel panico (ride). Le cose stanno cambiando davvero in fretta. È sconcertante in un certo senso, vedere che il cinema si sta trasformando. Quando la pellicola ha cominciato a scomparire è stato un dolore mentre adesso, in un certo senso, sembra una liberazione… Quello che è davvero importante e per cui dobbiamo davvero stare attenti, è preservare quei lavori e quelle occasioni in cui gli uomini possono essere creativi e liberi di esprimersi. È un problema che notiamo nel giornalismo di oggi: è diventato così difficile essere giornalisti perché c’è sempre meno supporto per quello che è il “vero giornalismo”. Accade lo stesso per i film ma, mentre i problemi per la stampa sono stringenti, noi ci troviamo davanti ancora delle opportunità. Le grandi aziende vogliono raccontare storie e offrire contenuto. Il che vuol dire mettere al centro gli storyteller. Senza storyteller non c’è mercato, e questo in qualche modo mi incoraggia. Ma dall’altra parte, bisogna fare i conti con il mezzo che si sta trasformando. Personalmente non sopporto l’idea di realizzare prodotti industriali in poco tempo, come accade spesso per la televisione: i prodotti diventano scadenti. Trovo, invece, interessante lavorare con tempi più estesi che consentono più attenzione, come accade con le serie da otto ore che permettono di adattare meglio anche i romanzi, a differenza del cinema, dove lo sceneggiatore si trova di fronte a strutture narrative molto più rigide. In questo senso, avere l’opportunità di lavorare su questi nuovi mezzi, come le serie da otto ore, è davvero stimolante. Diventa come scrivere un libro.