Hannah
Andrea Pallaoro ha coscritto con Orlando Tirado e diretto il lungometraggio Hannah, quarto ed ultimo film italiano in concorso in ordine cronologico a Venezia 74. Charlotte Rampling, che interpreta il ruolo della protagonista, ha conquistato la Coppa Volpi come migliore attrice.
Ciao, Andrea, partiamo dal contenuto del tuo film. Cosa racconta Hannah?
Hannah è l’esplorazione interiore di una donna, che vive il dramma di essere intrappolata nelle scelte fatte dalle sue insicurezze, dal suo senso di lealtà nei confronti di suo marito e della sua famiglia, dalle sue dipendenze. E’ un film che vuole esplorare il mondo interiore di questo personaggio senza distrazioni di esplicitazioni narrative spesso fuorvianti: ho voluto abbracciare, un linguaggio e un approccio, sensoriale ed emotivo.
Da dove sei partito per la costruzione di questo film?
Io parto sempre dalle immagini.
Hannah è stato scritto con il mio collaboratore Orlando Tirado, con il quale ho scritto anche le mie opere precedenti. Noi partiamo sempre dalle immagini e una volta che sappiamo chi è il personaggio, iniziamo a raccogliere queste immagini, unendole per far poi venir fuori l’intera storia.
Di solito si sa che in una storia, o domina il plot, o domina il personaggio. Si può dire che nelle tue sceneggiature domina il personaggio?
Si, proprio così. Per me è fondamentale che il personaggio non sia mai imprigionato dalla storia, perché quando è la storia che detta le azioni del personaggio, è molto limitante, preferisco che sia il personaggio grazie alla mia immaginazione a guidarmi in una storia.
Quali sono le immagini iniziali da cui sei partito?
Per esempio la scena in cui Hannah e il marito mangiano in silenzio a casa e la lampadina si fulmina: è stata una delle primissime immagini pensate per il film, il momento in cui marito e moglie lasciano la casa insieme per la prima volta per portare lui in prigione, l’immagine nel negozio di fiori. Ci sono tanti momenti che sono per me visivamente interessanti, ma che ci danno l’opportunità di entrare nella mente e nei pensieri di questo personaggio.
Come funziona la collaborazione con il tuo sceneggiatore?
Io sicuramente parto di più dalla componente visiva, però alla fine ci usiamo come degli specchi. Io butto un’idea e lui la ributta indietro leggermente modificata e viceversa. È un passaggio di palla che assume forme diverse a ogni passaggio, è un percorso che poi è lo stesso percorso che vogliamo che lo spettatore faccia.
Delle volte ci sono su Youtube dei video in cui dei ragazzi giocano ai videogame mentre la camera mostra le reazioni del loro volto, nel film viviamo un po’ la stessa sensazione. L’interiorità filtra dalle immagini?
Esattamente. Mi hanno parlato di questa cosa e questo è bellissimo per me. Anche Andy Warhol, in alcuni dei suoi video, sperimentava questi primi piani, perché non vedendo quello che questi ragazzi vedono, come spettatore, t’immagini tu quello che stanno vedendo e quindi vivendo: è un’immersione nei personaggi ma allo stesso tempo è un modo anche per scoprirci di più.
Questo tecnicamente come lo hai realizzato? Hai scritto effettivamente cosa stesse guardando il personaggio, hai realizzato anche dei dialoghi che descrivessero la situazione per poi ometterli?
I dialoghi no, non ci sono stati dei dialoghi in più nella sceneggiatura; mi concentro molto di più sulle descrizioni e sulla fotografia interiore del personaggio che sui dialoghi. Comunque le mie sceneggiature sono molto specifiche, descrivendo molto bene gli spazi e i suoni e costruendo delle vere e proprie mappe sonore e visive.
La sceneggiatura la scrivi a servizio dell’attore o più al servizio del mondo visivo?
La sceneggiatura è al servizio del mondo visivo e non al servizio dell’attore, anzi cerco di eliminare ogni riferimento al mondo emotivo e interiore dei miei personaggi e di direzione degli attori. Poi il lavoro con l’attore è un qualcosa che cerco di fare in intimità. La sceneggiatura deve essere il più oggettiva possibile, senza direzione attoriale.
Invece a livello tecnico, come può essere un’indicazione sui movimenti di camera o di tipologia di luce, cerchi di togliere anche queste cose?
Devo dire che nella sceneggiatura do molte indicazioni per quanto riguarda la luce. Quando si tratta dei movimenti degli attori solo quando voglio una cosa molto precisa le scrivo. Mentre per quanto riguarda i movimenti di camera, tendenzialmente non li scrivo, ma scrivo la sceneggiatura in modo che suggerisca comunque l’ausilio dei movimenti, la mia descrizione è scritta in base al movimento che m’immagino.
In quanto tempo avete scritto la sceneggiatura di Hannah?
L’abbiamo scritta in quattro settimane, dove ci focalizzavamo sulle immagini, ma in seguito è stata ritoccata molto. Noi l’abbiamo scritta nel 2013, ma fino alle riprese del 2016, la sceneggiatura ha subito dei cambiamenti.
Ci sono degli elementi e delle cose del film che hai scoperto soltanto al momento delle riprese?
Assolutamente sì, sono ispirazioni che vengono fuori dalla collaborazione con le persone del set, quindi il mio D.O.P., i miei attori, la mia montatrice e tutte le persone che ci sono dentro.
È una continua scoperta fare un film. Tu parti con un’idea anche abbastanza precisa, ma lungo il cammino secondo me devi dare la possibilità a queste idee di modificarsi grazie ai vari contributi che vengono dall’organico.
Un film come Hannah lo potresti fare in Italia?
Devo dire che una parte del film è stata girata in Italia, comunque dipende molto da che tipo di persone e collaboratori ti trovi, che produzione hai alle spalle, dipende da molti fattori.
Del panorama produttivo italiano, che si sta aprendo ai giovani, cosa pensi?
Io penso sempre all’Italia con molto affetto, sono orgoglioso di essere italiano. Detto questo, a volte mi dispiace vedere come in Italia ci siano dei problemi culturali e sociali, non così diffusi, ma ci sono e questo mi dispiace perché vedo nell’Italia comunque una nazione in cui mi riconosco. Però sono ottimista e penso che le cose possano riscattarsi, basta guardare la nostra storia culturale, il nostro patrimonio artistico e il nostro cinema.
Ci sono cose nel cinema italiano che non sono responsabilità dei registi o degli sceneggiatori, non c’è un indotto industriale forte e d’altro canto non c’è una propulsione artistica tale che sostenga la produzione e quindi si risolve tutto in un pantano a volte. Secondo te ci sono delle colpe da rivolgere ai registi e agli sceneggiatori?
Quello che i registi e gli sceneggiatori devono fare è quello di non scendere a compromessi. Ci sono due modi di fare cinema, il cinema come intrattenimento con tutte le sue logiche e il cinema autoriale che è più un’espressione artistica: se la strada è quest’ultima i compromessi non ci possono essere.
Questa intervista WGI è apparsa sul sito Anonima Cinefili.