Una famiglia
Andrea Cedrola, Stefano Grasso e il regista Sebastiano Riso hanno scritto insieme la sceneggiatura del film Una famiglia, secondo in ordine cronologico dei quattro lungometraggi italiani in concorso alla 74a Mostra del Cinema di Venezia.
Sebastiano, Andrea e Stefano, come d’abitudine in questa rubrica chiediamo agli sceneggiatori di presentare il proprio film con un breve pitch. Di cosa parla Una Famiglia?
S.G: è difficile dire di cosa parla un film. Anche perché non si tratta mai di una cosa sola. Sicuramente Una Famiglia parla o, meglio, prova a parlare del nostro Paese e del nostro tempo. Più ancora del nostro tempo che del nostro Paese. Con altrettanta certezza posso dire che non parla di utero in affitto né di adozioni illegali, come ho letto in questi giorni su alcuni quotidiani e riviste.
Quello è l’argomento, il livello più superficiale della storia. Il tema, quello che ci interessava raccontare davvero, è un altro. E lì entriamo, lo ripeto, in una dimensione più sfaccettata.
Dipende da come lo prendi, il film. Se scelgo un taglio esistenzialista, potrei dirvi che parla di come oggi – ma forse è sempre stato così – sia impossibile essere innocenti anche quando si è delle persone buone. C’è quel racconto di Flaubert, s’intitola “Un cuore semplice”. Maria, la protagonista del nostro film, la possiamo definire un cuore semplice, un’anima innocente. Eppure nel film è coinvolta in un’attività persino criminosa, in qualche modo è complice del progetto terribile del suo compagno, Vincent. Certo, a causa della sua fragilità. Ma quella fragilità, le sue debolezze, fino a che punto possono essere una prova della sua buonafede, invece di diventare il più comodo degli alibi?
Anche dicendo questo, mi rendo conto che mi è più facile dire di che cosa non parla il nostro film: non è una storia su un rapporto vittima-carnefice, anche perché ne sono stati fatti troppi di film così. Poi, è chiaro, a quel grande filone di storie s’ispira in alcuni passaggi (penso al momento in cui lui la chiude in casa), ma fondamentalmente se ne discosta.
Ripeto, non c’è un solo modo di raccontare il film, come non c’è un solo modo di guardarlo. Se per esempio voglio essere provocatorio, parlo di Una Famiglia come di una storia sulla coppia, su tutte le coppie. Finché c’è fiducia, una coppia regge. Inizia a vacillare quando non sai più cosa sta pensando l’altro, quando l’altro diventa imprevedibile, come Maria agli occhi di Vincent. E finché c’è un progetto comune, una coppia regge. Anche se questo progetto è estremo, o addirittura contro natura come quello dei nostri due protagonisti.
Com’è nata l’idea del film? Come si inserisce nel percorso poetico iniziato con Più Buio di Mezzanotte?
S.G Direi che quello che abbiamo fatto con Una Famiglia è perfettamente coerente con il nostro primo film, ne è un’evoluzione. Anche Più buio era una storia in cui il protagonista, in quel caso un ragazzino di quattordici anni, era limitato nella sua libertà e, quindi, per forza di cose, nella sua possibilità di essere felice. La differenza era che per Davide le limitazioni venivano dall’esterno, da un mondo incapace di accettarlo per via di pregiudizi e di una mentalità chiusa e arretrata.
Il caso di Maria è più complesso: c’è sicuramente l’azione del mondo esterno, incarnato nella figura del suo compagno. E lei in quanto donna è simbolo di una condizione femminile che nel nostro Paese, e non solo, viene ancora vista come subordinata a quella maschile. Eppure Maria ci mette anche del suo, e qui torniamo al discorso della complicità. Davide per salvarsi ha bisogno di una famiglia alternativa, i suoi amici di Villa Bellini; lei se volesse ce la potrebbe fare anche da sola, ma lo capisce soltanto quando il film comincia. Prima, per troppi anni, ha pensato che non sarebbe stata capace di vivere senza Vincent. Ne prende coscienza durante il film. E si ribella, come in fondo si ribellava Davide a suo padre. Non è un caso che, nei due finali, Maria e Davide siano da soli. Lei ha il suo bambino, è vero, ma il suo sguardo in macchina ci sta dicendo che sa chiaramente che da adesso in poi dovrà affrontare la vita da sola. La solitudine è il prezzo che hanno pagato per il loro coraggio.
Le vicende narrate in Più Buio di Mezzanotte sono ispirate a una storia vera, quella della Drag Queen Fuxia. È stato così anche per Maria e Vincent di Una Famiglia?
A.C.: Davide, il protagonista di Più buio, nasce dalla testimonianza di Fuxia relativa alla sua adolescenza, che abbiamo raccontato in maniera più o meno fedele. Il punto di partenza era dunque ben preciso: la vita di una persona che abbiamo conosciuto personalmente.
In una famiglia se Maria e Vincent non esistono nella realtà, “è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce” (come recita la più celebre delle didascalie).
Dopo aver immaginato questi due personaggi, abbiamo consultato una ricca documentazione relativa a diversi casi di vendite di bambini in Italia, un fenomeno diffuso a livello nazionale. Nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche (telefonate che intercorrevano tra gli interessati, venditori e acquirenti), emergevano figure che ricoprivano il ruolo affidato a Maria e Vincenzo nella nostra storia.
S.G: Esatto, con una differenza importante tuttavia. Nelle storie accadute realmente non esisteva una coppia che si amava e nello stesso tempo portava avanti un’attività di questo genere. Dalle intercettazioni emergeva soltanto un’ossessione: quella per il denaro, a tutti i costi. In pratica, i sentimenti, le emozioni erano assenti. Se ci fossimo attenuti alla realtà, il film non avrebbe avuto alcun interesse se non quello di una denuncia, importante ma fredda.
Squadra che vince non si cambia. Come vi siete incontrati? Perché avete deciso di lavorare insieme al film d’esordio di Sebastiano?
S.G.: Io e Andrea ci conosciamo dai tempi del Centro Sperimentale, abbiamo frequentato lo stesso triennio del Corso di Sceneggiatura. Con Sebastiano invece è stato un amico comune a metterci in contatto. Lui aveva una mole di appunti sulla vita di Fuxia, la Drag Queen che ha ispirato il personaggio di Davide, ed era molto appassionato. E anche noi lo eravamo. Ci siamo trovati subito, abbiamo capito che condividevamo la stessa idea di cinema, e anche molta ambizione. Sì, eravamo molto ambiziosi all’inizio, dicevamo sempre che avremmo cambiato il cinema italiano. Adesso non lo diciamo più, ma lo pensiamo ancora.
Più in generale, cos’è che ispira la vostra creatività? Di solito sulla base di quali stimoli partite: un’immagine, un testo, oppure un evento o un fatto di cui venite a conoscenza?
S.G.: In questi due film è stata la vita vera a essere fonte d’ispirazione. La vita di Fuxia nel primo caso, e nel secondo caso storie oscure e passate colpevolmente sotto silenzio, un traffico di bambini dati alla luce e poi venduti a coppie che legalmente non possono adottare. C’era qualcosa in quel mercato nero che ci è subito sembrato terribile e nello stesso tempo molto potente, perché in fondo è il grado zero del nostro capitalismo, della nostra società in cui tutto è merce, persino la cosa più pura che possa esistere: un neonato.
Però se devo proprio risalire al primissimo embrione di Una Famiglia, in effetti c’è un’immagine che ha dato il via a tutto: Micaela Ramazzotti, con cui volevamo lavorare di nuovo dopo l’esperienza molto positiva di Più Buio di Mezzanotte, seduta in metropolitana accanto al suo uomo, una specie di Zampanò, e lei una Gelsomina smarrita e vulnerabile. Quell’immagine, guarda caso, è diventata il primo fotogramma del film.
Una volta stabilito il tema del film come lavorate? Come vi dividete gli oneri della scrittura? C’è un aspetto in cui uno di voi è più versato degli altri (struttura, dialoghi, singole scene)?
A.C. C’è una lunga fase costituita da incontri, numerosi e lunghi incontri, in cui si approfondiscono i personaggi principali e il loro rapporto, la loro fisicità e la loro mentalità, il modo in cui si pongono – o si porrebbero – in determinate situazioni, così da conoscerli alla perfezione. Durante questi incontri si approfondiscono anche i personaggi secondari, l’ambientazione e tutti gli aspetti che crediamo necessari dover sviscerare prima di affrontare la trama.
Quando siamo convinti che questa fase può dirsi conclusa, passiamo alla scaletta, di cui successivamente ci dividiamo i singoli punti, di solito per blocchi.
La scaletta è generalmente molto dettagliata, ma lasciamo sempre la massima libertà, a ciascuno di noi, di apportare modifiche in fase di sceneggiatura. C’è una grande fiducia reciproca e questo aiuta molto.
Quanto tempo avete impiegato per giungere alla stesura definitiva di Una Famiglia? Ci sono stati scogli particolarmente duri da superare dal punto di vista narrativo?
A.C.: La fase di scrittura ha avuto una lunga gestazione. Non è semplice affrontare un argomento delicato come questo e due personaggi così complessi. Ci vuole delicatezza, attenzione. Dunque, tempo. La decisione più difficile da prendere è stata, come spesso succede, la scelta del punto di vista, che infatti è cambiato rispetto al trattamento.
E dal punto di vista produttivo? Avete dovuto rinunciare a qualche scena? E com’è andata la partnership con i co-produttori francesi?
AC.: Non c’è stato nessun taglio traumatico. Non mi vengono in mente scene a cui abbiamo dovuto rinunciare, ma ci sono stati passaggi della sceneggiatura che, per un motivo o per l’altro, sono stati modificati in fase di riprese. Però è normalissimo.
S.R.: Con i produttori francesi, Bac e Manny Film, è andato tutto per il meglio.
Quante settimane avete girato?
S.R:: Sono state sei, intense settimane di riprese.
Una volta sul set, Sebastiano lascia spazio all’improvvisazione? Oppure la stesura definitiva è “blindata”? Andrea e Stefano, eravate “operativi” anche durante le riprese?
S.G.: Sono dell’idea che la presenza di uno sceneggiatore su un set sia sostanzialmente inutile o quantomeno superflua in quei casi in cui il copione, la storia sono molto “forti”, molto strutturati. E Una Famiglia appartiene a questa tipologia.
L’esperienza di “Più Buio, per esempio, fu molto diversa. Le scene a Villa Bellini con i ragazzi, che erano tutti attori non professionisti, richiedevano una forte dose d’improvvisazione e in quel caso il set diventava un secondo momento di scrittura vera e propria.
A.C.: Durante le riprese preferisco non intervenire troppo e lasciare il set a chi lo vive ogni giorno. Anche perché so che Sebastiano riuscirà a valorizzare la sceneggiatura, ad esempio grazie allo straordinario lavoro che fa con gli attori.
In fase di montaggio, invece, mi piace seguire passo passo l’evoluzione del film.
Si dice che un film si scrive tre volte: su carta, sul set e infine al montaggio. Anche per Una Famiglia è stato così?
S.G:: Sul montaggio posso solo dire che, quando al Centro sperimentale i miei docenti mi dicevano che un bravo sceneggiatore deve capirne anche di montaggio, mi stavano dando un suggerimento prezioso. Abbiamo scritto il film con questa domanda sempre in testa: la concatenazione delle scene, la loro progressione avrebbe funzionato anche sullo schermo? Questa “proiezione in avanti” mentre lavori sul testo aiuta molto, ma poi arrivi al montaggio e in effetti inizia una nuova fase, capisci che il film solo lì, alla moviola, può trovare il giusto ritmo e il suo respiro.
Proprio per questo, in fase di montaggio, in perfetto accordo con Sebastiano e con la montatrice Ilaria Fraioli, abbiamo deciso di sacrificare il personaggio che nel film è interpretato da Pippo Delbono, e che in sceneggiatura aveva una funzione molto più importante, di vero e proprio sostegno per Maria.
Vi aspettavate che il film venisse selezionato in concorso a Venezia? Come avete reagito alla notizia?
S.G: Di solito cosa si risponde a domande come questa? Cose tipo: “sapevamo che era un buon film, ma non avremmo mai sperato in un riconoscimento così importante…”? Noi devo dire ce lo aspettavamo. Lo volevamo fortemente e ce lo aspettavamo. E sapevamo di meritarcelo. Per questo quando è arrivata la notizia è stata una gioia ancora più grande: perché se siamo lì, è soltanto grazie a noi e a tutti quelli che hanno lavorato al nostro film.
Sin dalla fondazione, Writers Guild Italia si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori – iscritti e non – l’importanza del proprio ruolo all’interno della filiera produttiva dell’audiovisivo. Fino a poco tempo fa, nei cataloghi dei maggiori festival – e purtroppo succede ancora a Venezia – gli sceneggiatori non venivano nemmeno menzionati. Da questo punto di vista qual è stata la vostra esperienza in passato?
S.G.: Con il nostro primo film insieme, che era stato selezionato alla “Sémaine” del festival di Cannes, ricordo che io e Andrea, in quanto sceneggiatori, abbiamo ricevuto un’accoglienza calorosa e di sicuro non ci siamo sentiti messi da parte.
Poi devo dire che, anche da questo punto di vista, lavorare con Sebastiano è una fortuna. Lui ripete spesso quello che diceva Billy Wilder, che insomma di cinema ne capiva abbastanza: ovvero che la sceneggiatura è tutto. E quindi ha sempre dato grande importanza alla fase di scrittura e, di conseguenza, a noi. Detto questo, io che lavoro anche nella serialità televisiva, mi rendo conto delle differenze: al cinema l’attenzione è tutta sul regista, ma forse è anche giusto che sia così.
Andrea e Stefano, avete nel cassetto una storia che prima o poi vorreste dirigere?
A.C.: No, assolutamente no.
S.G.: Sicuramente non nell’immediato.
Da spettatori, cosa manca alle storie che vengono scritte e prodotte in Italia?
A.C.: Spesso manca un po’ di cinema.
C’è qualche film la cui sceneggiatura invece vi ha sorpreso? Per quale ragione?
A.C.: Tra i film italiani degli ultimi anni, ho amato moltissimo La Bocca del Lupo di Pietro Marcello. La sua forza, oltre che nella potenza delle immagini, risiede proprio nella scrittura, straordinaria nel mescolare più registri, dalle immagini di repertorio alle “scene di finzione”, dalla voce fuori campo alle interviste dei due protagonisti.
Cosa non dovrebbe mancare mai in una buona sceneggiatura?
S.G.: Com’era quella famosa frase? Anche se sarebbe ora di ribaltarla: un uomo nudo e una donna con la pistola…
A.C.: Non credo che ci sia l’ingrediente segreto, un elemento indispensabile senza il quale una sceneggiatura non possa definirsi “buona”. È molto importante, però, che non ci sia alcun giudizio nei confronti dei personaggi, neppure nei confronti dei cosiddetti cattivi. Soprattutto nei confronti dei cattivi.
Avete già un’idea in cantiere per il prossimo film di Sebastiano?
A.C.: Da qualche tempo parliamo di una storia, sì, ma siamo solo all’inizio. Prima di affermare con certezza che sarà il prossimo film di Sebastiano, vogliamo capire se è davvero la strada giusta da percorrere per i prossimi mesi.
S.G: Andrea dai, non fare il prudente! È la strada giusta!
A.C.: Sì, è vero. È la strada giusta.
Grazie di cuore e in bocca al lupo a voi e a Una Famiglia!
Questa intervista WGI è apparsa anche sul sito di Anonima Cinefili.