EZIO ABBATE: PIU’ E’ GRANDE LA SFIDA PIU’ MI DIVERTO
Ezio, sceneggiatore di Suburra e vincitore di un David di Donatello, ci racconta il suo ultimo successo e la sua relazione intima con la scrittura
Personalmente credo che una delle vittorie di Suburra sia la scrittura dei personaggi e i personaggi sono un po’ dei figli per gli sceneggiatori. Io vorrei sapere se c’è un figlio che ami più di un altro.
Caspita! Che difficile! Lo sai si dice che i figli sono tutti pezzi di cuore. La verità è che sono molto legato a Spadino; è il personaggio più originale che abbiamo creato. Spadino ha avuto la missione di rinnovare il crime italiano, includendo il suo essere gangster e allo stesso tempo il suo essere umano. I suoi innumerevoli conflitti, come quello etero e omosessuale o quello fra il suo interno familiare e il suo esterno, lo rendono forte e originale. E’ quello per cui andiamo più orgogliosi.
Si può dire che Spadino sia portavoce di alcune minoranze?
Il suo compito era anche questo; avvicinare culturalmente al popolo sinti. La sua storia è un successo culturale. Inoltre Suburra mostra la storia di un’amicizia impossibile e Spadino rappresenta questo centro tematico col suo essere sinti e omosessuale insieme.
Parlando di Roma, una delle critiche più forti che vi è stata fatta è quella di rappresentare una Roma sporca, cattiva. Credo che per parlare della parte oscura di qualcuno o qualcosa sia necessario amarla molto. Che ne pensi riferendoti alla città eterna?
Non sono romano, ci vivo da molto e ho con Roma un rapporto di odio e amore. Si può dire che questo genere di critica è un problema secolare. Tozzi, direttore di Cattleya, raccontava quando Andreotti se la prese con gli autori del neorealismo accusandoli di lavare i panni sporchi fuori casa anziché dentro e gli autori replicavano che la realtà non erano loro ad inventarla ma che semplicemente la raccontavano.
Il progetto Suburra nasce come ambizioso fin dalle origini. Immagino che possa aver causato una pressione psicologica. Come l’hai gestita? Fin da subito abbiamo sentito l’asticella molto in alto. La prima serie italiana per Netflix che, arrivato da poco in Italia, suscitava molto scetticismo. La pressione io l’ho sempre vissuta come uno stimolo positivo: più è grande la sfida più mi diverto. C’è materiale a cui ti affezioni che sei costretto a buttare via; fa parte del gioco, ma la pressione alla fine ci ha fatto tirare fuori il meglio.
Perché Suburra è tanto internazionale?
Fin da subito sapevamo che Suburra sarebbe stata guardata in 190 Paesi; il pubblico estero ha coinciso col pubblico italiano e questo non avviene quasi mai. Per questo sapevamo che avremmo dovuto adattare un po’ il linguaggio. Suburra è una serie che ha giocato molto con le tradizioni italiane e questo è il lato del realismo. Parte di questo realismo ha lasciato poi spazio al divertimento, all’entertainment e abbiamo capito che questo è l’unico linguaggio universale possibile.
La credibilità dei personaggi di Suburra deriva anche dal fatto che persino i più invincibili hanno sempre paura. Tu di cosa hai paura nel tuo mestiere?
Costruire dei rapporti sul lavoro che mi involucrano sentimentalmente e che possano rivelarsi non autentici. Questa è una cosa che mi fa male umanamente. Un’altra paura è quella di non essere compreso; che la passione spesa per scrivere possa non essere capita e che non sia inclusa nel prodotto finale.
Il progetto che ti ha dato più soddisfazione della tua carriera?
Un’altra domanda difficile. Se proprio devo sceglierne uno ti direi il cortometraggio col quale ho vinto il David di Donatello, Frontiera. Era un’idea piccola sulla quale abbiamo investito molto anche grazie all’amicizia con Alessandro Di Gregorio che mi porto nel cuore.
Per terminare Ezio fammi un regalo. Autocitati!
Ah, che vergogna! Fra l’altro non ho memoria… Forse potrei dirti una battuta di Suburra, stagione 2. Aureliano e Spadino parlano della morte e arrivano a questa conclusione che è a sua volta citazione di Accattone di Pasolini: “Vojo morì come i faraoni, co’ tutto l’oro addosso”.